Il ministero senza umanità: la ferita che la Chiesa non osa nominare
L'incapacità emotiva ha radici profonde e non è colpa del prete. Uno sguardo alla formazione ricevuta
C’è un’ombra che attraversa silenziosamente la vita di alcuni presbiteri. Non è lo scandalo, non è la crisi vocazionale, né l’attacco esterno della secolarizzazione. È qualcosa di più sottile e radicato, una frattura profonda e spesso invisibile: l’analfabetismo emotivo. Un’incapacità relazionale che, pur non facendo rumore, svuota lentamente l’anima. Rende diversi preti incapaci di vivere in pienezza la propria umanità, e quindi anche il loro ministero.
Sono temi che non interessano a chi preferisce puntare il dito contro “la categoria”, a chi si nutre di gossip sulla vita privata dei preti, dimenticando che molti di loro, giorno dopo giorno, cercano faticosamente di tenere insieme la propria umanità e la propria vocazione. Intendiamoci: ci sono aspetti del ministero che sono autenticamente belli e sanno dare gioia profonda. Sono la maggior parte e di questo rendiamo grazie al Signore ogni giorno. Ma oggi vogliamo soffermarci su una questione altrettanto seria e trascurata — quella della formazione affettiva ed emotiva. Un nodo che riguarda già l’intera società, e che ancor più tocca la realtà seminariale, dove continuano ad avere spazio figure come Amedeo Cencini, Enrico Parolari, Giuseppe Sovernigo e altri repressi che non hanno mai davvero fatto i conti con sé stessi.