Silere non possum

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Preti per simpatia, scartati per antipatia

Preti per simpatia, scartati per antipatia

Il sacerdozio ridotto a casting clericali, dove a decidere non è Dio, ma il gusto personale del rettore di turno.

lug 04, 2025
∙ A pagamento
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Preti per simpatia, scartati per antipatia
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Nella Chiesa cattolica, il sacerdozio non è una professione, non è un'opzione tra tante, non è un avanzamento di carriera né tantomeno un premio da conquistare. È un sacramento. È un mistero di elezione, dono e responsabilità. Ma cosa accade quando questa realtà sacramentale viene ridotta a una selezione basata su simpatie personali, inclinazioni ideologiche o – peggio ancora – antipatie viscerali?

Il sacerdozio ministeriale è configurazione a Cristo Capo e Servo. È il frutto di un discernimento ecclesiale, non di un automatismo. Ma proprio qui si innesta la questione che scuote le fondamenta della credibilità della Chiesa: chi fa realmente discernimento? E su quali basi?

Un cammino vocazionale in salita

Il giovane che sente la chiamata al sacerdozio inizia un percorso lungo, impegnativo, delicato. Studia teologia, vive in comunità, si sottopone a valutazioni psicologiche, spirituali, intellettuali. Tutto questo – almeno sulla carta – dovrebbe servire a comprendere se quella vocazione è autentica, se è maturata, se è conforme al Vangelo.

Ma nella realtà dei fatti, la selezione dei futuri sacerdoti è spesso viziata da logiche umane: simpatia o antipatia, adesione a una certa linea ideologica, “feeling” personale con il formatore di turno. Non mancano i casi in cui un seminarista venga allontanato non per gravi mancanze o per mancanza di vocazione, ma perché “non è in sintonia con il rettore” o “ha un altro stile spirituale”.

È una questione tanto delicata quanto drammatica, che Papa Benedetto XVI ha avuto il coraggio di affrontare nel suo ultimo libro, pubblicato postumo. Scriveva con amarezza: “Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio.”

Una testimonianza che getta luce su una realtà troppo spesso occultata, per timore che venga scalfita la fiducia nel ministero sacerdotale o nella struttura formativa della Chiesa. Eppure, come troppo spesso accade, si sbaglia bersaglio: non è parlarne che distrugge la fiducia, è il fatto stesso che certe dinamiche esistano e vengano tollerate. Il silenzio non protegge il sacro, ma lo espone al sospetto e all’ipocrisia.

Se davvero si vuole una Chiesa più credibile, non bisogna coprire il problema, ma affrontarlo alla radice. Solo così sarà possibile ridare trasparenza, giustizia e autenticità a un percorso vocazionale che, per sua natura, dovrebbe essere liberato da ogni parzialità e guidato unicamente dalla volontà di Dio.

È necessario quindi distinguere tra selezione e discernimento ed è importante evitare che la formazione diventi un sistema di clonazione del formatore.

Il formatore come filtro di Dio?

Il nodo cruciale è questo: molti formatori si comportano come se fossero i padroni della vocazione, anziché servitori del mistero di una chiamata che non appartiene loro. Da questa impostazione distorta nascono situazioni grottesche. Ci sono rettori che ammettono in seminario solo candidati “con i sandali e la chitarrina”, oppure, all’opposto, cercano giovani “problematici” convinti di poterli salvare con il proprio intervento taumaturgico.

La selezione vocazionale è spesso guidata da criteri soggettivi, se non ideologici: c’è chi valuta i seminaristi secondo la propria agenda teologica, chi guarda alla linea liturgica, chi filtra tutto con lenti pseudo psicologiche apprese nelle riviste degli anni 60. Alcuni vescovi danno il nulla osta all’ordinazione solo se il candidato “crea problemi”, cioè non fa domande e non mette in discussione nulla.

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