Ti ascolto solo se parli di me
Empatia apparente, difese narcisistiche e fallimenti pastorali. Quando il dialogo è solo una scusa per autoaffermarsi.
In un mondo che moltiplica i canali di comunicazione, l’ascolto sembra diventare un’arte sempre più rara. Non mancano le parole, ma manca lo spazio per accoglierle. Il punto non è solo la frenesia, ma un atteggiamento più profondo e inquietante: l’altro non interessa, o interessa solo nella misura in cui ci permette di parlare di noi stessi.
Un segnale rivelatore è quella risposta immediata, spesso automatica, che chiude lo spazio dell’interlocutore: “Eh sì, anche a me succede così.” È il paradosso dell’empatia apparente: invece di entrare nel mondo dell’altro, si afferma il proprio. Come se l’esperienza dell’altro fosse solo un pretesto per parlare di sé.
Questa dinamica ha una base psicologica riconoscibile. Studi sull’ascolto attivo e sulla comunicazione interpersonale (cfr. Brownell, 2012; Weger et al., 2010) mostrano come molte persone ascoltino non per comprendere, ma per prepararsi a rispondere. Il cervello — secondo una ricerca pubblicata su Nature nel 2016 — tende ad attivare i circuiti linguistici anche mentre l’altro parla, anticipando la replica piuttosto che accogliendo il contenuto. Non si tratta quindi solo di maleducazione, ma di una difficoltà cognitiva e affettiva: ascoltare davvero implica sospendere il proprio ego.